sabato 26 febbraio 2011

Casa


L'unica casa che ho sentito come casa mia tra poco non ci sarà più. Non potrò più entrarci. Non troverò le vite che ci sono passate. Non troverò le fotografie, le lettere, i quadri, i mobili e i mobiletti, i vestiti negli armadi, i cappelli con la veletta, i cassetti da aprire per frugarci dentro, il sole che entra dalle finestre grandi, non ci sarà più l'ingresso ampio come una stanza e la sobrietà liberty delle tende, non ci saranno le sedie modeste della cucina e la sediolina di paglia, non vedrò più tutti quegli oggetti che hanno creato le geometrie di vite incastrate per caso, i colori diversi delle stanze, i ricordi sul balcone e il rumore della carrucola che tiene i fili per stendere. Non mi dovrò più nascondere dalla vicina impicciona del piano di sopra, non ci sarà l'odore del caffè nel pomeriggio, alla stessa ora e ogni giorno e non potrò più tornare a guardare le bambole con cui giocavo. E dov'è finita Priscilla, la mia preferita, dai capelli di lana azzurra, piccola piccola e tutta di stoffa e magica per la tenerezza? Non ci sarà più la scrivania dove studiavo, la finestra grande dove c'era la mia culla, i pavimenti verdi e marroni e bianchi e i soffitti alti, il tramezzo, il gradino per andare al bagno e il bagno bianco e nero come fosse una scacchiera. E la gentilezza di ogni cosa messa al suo posto. Ogni oggetto in quella casa aveva un posto e riceveva cure e attenzioni.

Non riesco a spingermi troppo in là con la memoria, è troppo doloroso. Si intrecciano in modo inestricabile il buio e la luce. Capisco, sento, come siano imprescindibili l'uno all'altra.

La casa dove sono nata e sono cresciuta presto sarà venduta. Mentre lo scrivo è come se mi arrivasse una coltellata. Sarà in grado la mia memoria di contenere senza un appiglio reale tutti i ricordi? Dove troverò la dolcezza del ritorno? 

Mi mancano i miei nonni. La casa senza di loro era silenziosa ma risuonava ancora di tutti i passaggi di memoria e di sguardi. Comprendo che ora è il momento del distacco. E' ora la presa di coscienza della morte, del fatto che la vita è mutevole. 

L'ultima volta che mi sono sentita a casa, una casa ampia di tempo, era all'ingresso della Domus Aurea. Di notte, per strada, nel silenzio del freddo e nel calore di un bacio. 









 


lunedì 14 febbraio 2011

Levare


Osservo gli acquerelli di Turner. Sono vortici di luce. Anche l'aria in Turner diventa massa e muove con la luce le superfici del mare e della terra. C'è sempre un punto in Turner che genera tutto, un punto luminoso e drammatico. Negli anni accade, come per tutti i grandi pittori, che vada avanti per sottrazione. Toglie, sempre più. Toglie colore, toglie definizione, toglie persino l'impeto. Rimane l'essenza, l'evocazione. Il gesto. Rimane la poesia.

Assomiglia al procedimento della scultura. Si toglie materia per poter creare.

Mi chiedo cosa vada tolto in questo momento dalla mia vita perché possa assumere una forma.

Mi chiedo perché non riesco ad esprimere rabbia e dolore e risentimento e il sentirmi non rispettata. Sorrido invece. Lo so fare bene. Forse dovrei togliere proprio questo.  


sabato 5 febbraio 2011

Varco

Un gabbiano posato su un comignolo nel sole del pomeriggio. Immobile. Con la faccia al sole, un sole velocissimo a cambiare colore, nell'attimo degli arancioni rosati e poi sempre più rossi. Osservo il gabbiano, lo scorgo riconoscendone la forma, se non avesse il becco e le zampe potrebbe essere un mattone per quanto è fisso. Lo osservo e mi fermo anch'io, osservare attentamente conduce alla contemplazione e la contemplazione altro non è che lo svuotamento dei pensieri e l'ingresso in un altro mondo, è la sospensione del giudizio, dell'affanno, del tempo. Il tempo si ferma e, in un solo attimo, le immagini si dilatano fino a diventare consapevolezza, varco. Non basterebbero mille ragionamenti corretti o sbagliati per poter arrivare a quell'attimo. 

Ferma, guardando il gabbiano, mi ci sono identificata. Ho iniziato a sentire il sole sul viso, ho strizzato gli occhi e dall'alto del comignolo la vista della città era magnifica e silenziosa. Tutta rosa e arancio e violetto. Stavo bene, scomparse le ansie e le remore e i dubbi e il desiderio ardente per chi non riesco a raggiungere, non ancora, pur sentendo un senso di appartenenza che non riesco a spiegare in alcun modo e che respingo perché vorrebbe dire accettare qualcosa a cui non mi sento pronta e per cui non mi sento in grado ma che desidero come non ho mai desiderato nulla in tutta la mia vita. Un vento. Fissa al sole ne ho sentito il calore che si spandeva come una doccia leggera e antica sul corpo e ho sentito i raggi che arrivavano da chissà quale tempo e da uno spazio ampio, grandissimo, largo, immenso. In quel momento un gabbiano dalle ali spalancate è arrivato, senza posarsi ha scosso l'aria e quel sentire. L'altro gabbiano senza la minima esitazione si è slanciato nel vuoto. I due volteggiando punteggiavano il rosso del cielo di tocchi bianchi e mossi di vento. Ho sorriso e ho compreso cosa vuol dire sapere aspettare e saper vivere ciò che può arrivare seguendo il primissimo infallibile necessario istinto.





domenica 30 gennaio 2011

Un attimo

Il punto è che mi stanno tornando le parole. E più tornano, più ho l'impressione di non averne e di non conoscerne abbastanza. Non possiedo la fluidità spontanea che ha chi le usa abitualmente e chi si trova a proprio agio nella scrittura. Io non mi sono mai trovata a mio agio. Le devo rincorrere, le devo cercare, ci devo pensare e, seppur negli slanci impulsivi, le parole sento sempre che non riescano a esprimere davvero quel che vorrei.

Ma ora mi servono. Mi servono come servono alcune bugie. Disperatamente.

Non per sedurre, no. Per avvicinare. Che è un affare diverso, complesso e semplice.

Non per ostentare, no. Per comunicare. Non per sfogo, per pienezza.

E per tentare di far durare un attimo oltre se stesso.

lunedì 10 gennaio 2011

Eppure

Eppure io quei due li vedo ancora. Li vedo entrare insieme con le facce contente, col passo deciso e un sorriso complice. Li vedo che si tolgono le giacche invernali, lui con gli occhiali stretti che gli donano fascino, una camicia stirata messa perché doveva incontrarla, lei con un vestito leggero color ottanio e gli orecchini verdissimi e speranzosi, quella sera non gli avrebbe detto di no e lui lo sapeva. Li vedo che entrano e iniziano a ballare stretti stretti un tango e poi un altro e poi li vedo separarsi e scegliersi di nuovo e ancora ballare. Vedo lei che risponde ai movimenti di lui che delimita lo spazio e lo espande, i tacchi quasi si allungano in orizzontale, le gambe si intrecciano e si sciolgono. Li vedo ballare abbracciati stretti che quasi si baciano e non aspettano altro e si baciano veloci come ali che spiccano il volo. Sembra che ce le abbiano loro, le ali. Sei bella, gli dice lui. Lei arrossisce nel buio della sala e si illumina. Poi li vedo andare via, andranno chissà dove, leggeri e titubanti tubando come due amanti che non possono perdere tempo. Li vedo e me li immagino felici ora che non ci sono, ora che le coppie che ballano sembrano stanche e annoiate, ora che il blu del posto non è intenso, non è caldo di quell'entusiasmo, di quella fretta calma e di quei passi. Vorrei che entrassero all'improvviso a rianimare l'aria, a colorarla di verde che fruscia e di sguardi intensi. Cerco persino in quel tavolino dove li aveva posati lui, i suoi occhiali.

Eppure so che da qualche parte stanno ancora insieme anche se si sono persi, come una musica che smette di suonare e che non si dimentica, come un passaggio nella loro vita e nient'altro.





 

domenica 9 gennaio 2011

Senza un disegno


Passi rapidi.

Giri.

Fermate.

Abbracci.

Sguardi.

Cene.

Rose.

Piazze.

Un Lavavetri che disegna due cuori.

Trovarsi.

Perdersi senza un disegno.

Pensare a te, pensare che vorrei che mi guardassi e sorridessi ancora.

Così, senza motivo.

Pensare che non succederà.

E voltarmi e sentire che stavi lì dietro, dietro i miei pensieri, forse li ascoltavi.

Ti sorrido, mi sorridi, gli occhi occhi brillano e lasciano una scia elettrica nell'aria

quasi materica, nessuno osa passare in mezzo, nessuno sa. Forse neanche noi.

Ci sosteniamo a vicenda, ci scambiamo sguardi che ci sorreggono nella decisione

di restare distanti.

Poi, a sera, gli occhi si abbassano come ponti levatoi. E la vita ci attraversa.























 


giovedì 6 gennaio 2011

La mia Befana


Doveva essere una serata allegra, questa. Poter far tardi senza doversi svegliare presto e ascoltare un bel concerto. Ma già da una settimana c'era qualcosa che mi si leggeva in viso. Un vento di ricordi che piano piano mi ha fatto riaprire gli occhi sul passato antico e su un passato recente, sull'inizio dell'anno scorso. Pensavo di aver superato il dolore iniziale quasi insopportabile, ma vissuto così profondamente da sciogliersi inaspettatamente presto. Forse troppo presto.



E' tornato, puntuale dopo un anno quasi esatto. E' tornato in vesti ancora più reali. Alcuni dolori sono irreali, questo l'ho imparato bene. Ci si accorge che le perdite vere accadono realmente, irrimediabilmente. Senza poter far nulla.



Un anno fa moriva mia nonna. La persona a cui ho voluto un bene profondissimo. Colei che ha compensato una madre troppo giovane e mi ha riempita di saggezza contadina e di semplicità. Perlomeno fino a una certa età, durante la prima infanzia. Nonna era una donna buona e allegra. Aveva una grande energia e quando qualcosa andava storto o quando semplicemente voleva rilassarsi, lavorava all'uncinetto. Non l'ho mai vista stare senza far niente. Puliva la casa, cucinava, faceva la spesa, stirava, si prendeva cura di mio nonno, di tutta la famiglia che già da allora scalpitava per frantumarsi, dei parenti vicini, di quelli lontani. E recitava proverbi a volte mai sentiti altrove, nemmeno dopo. Le piaceva anche prendere in giro bonariamente e le piaceva ridere se qualcuno faceva delle battute, visto che mio nonno non aveva un gran senso dell'ironia. Nonna era umile nelle origini, amava la campagna, le verdure e bere ogni giorno un bicchiere di vino rosso, che fa buon sangue diceva. Quando durante le feste nonno tralasciava i suoi quadri e si dedicava insieme a lei a cuocere biscotti e a decorarli, dividendosi lo spazio e i compiti, a nonno la forma e l'estetica, a nonna le ricette sapienti, intuivo cosa volesse dire essere una famiglia: lavorare insieme e con ruoli diversi e complementari per uno scopo comune.



Quando non andavo a scuola, la mattina andavo in giro con lei a fare la spesa e mi sembrava una festa. Mi teneva per mano, nell'altra le buste grandi, e parlava con tutti i negozianti. Ancora adesso mi fa bene entrare nei panifici e sentire quell'odore di pane che rasserena perché mi ricordo di quanto mi piaceva sentire nonna chiacchierare e stringere un'amicizia di vicinato con tutti. C'è un panificio qui vicino casa dove a volte mi regalano una pizzetta o un dolcetto e penso che magari mi si legge in faccia che una parte di me si sente ancora una bambina. 



Quando imparai a pattinare e avevo la fissazione dei pattini a rotelle, nonna mi portava dove c'era il pavimento liscio liscio in una piazzetta circondata da palazzi altissimi. Il freddo del cemento e la bruttezza delle architetture si scioglievano di fronte alla felicità di sfrecciare libera e alla gioia di girarmi e guardare nonna tranquilla seduta su una panchina mentre completava un centrino. Quando studiavo, entrava zitta zitta nella stanza e mi lasciava sul tavolo le fette biscottate con il tè. Faceva un tè che riscaldava davvero. Poi, quando partii per l'università, ogni volta che tornavo mi dava una confezione di caffè. Così ti ricordi di me quando te ne bevi una bella tazza, diceva. E non mancavano le preghiere silenziose, ma mai imposte, le rassicurazioni e la curiosità di sapere come stavo e cosa stavo facendo. Che tu sei tanto difficile, mi diceva. Devi essere più spontanea. Ti prendi cura dei tuoi amici? E sorrideva facendomi capire di sapere che ero profondamente timida e sensibile con la tendenza a chiudermi.



Quando ancora stava bene - per fortuna è stata bene per la gran parte della sua vita, rovinata solo alla fine da un brutto male che le ha fatto patire di tutto, tutto accettato con la speranza di stare meglio e di far stare meglio gli altri, sorridendo di gioia a ogni visita, sopportando dolori, immobilità e strazi, lottando comunque in ogni istante, felice di ogni istante e felice ogni volta che vedeva il sole alla finestra strizzando gli occhi e stringendo la mano di chi le era vicino, stringendo forte la mia, fortissimo, quando c'ero - quando stava ancora bene, era venuta a Roma, le piaceva tanto Roma, la sua grandezza e le chiese ampie piene di bellezza, di storia che lei intuiva soltanto e rispettava, voleva vedere dove abitavo. Era salita spedita nascondendo l'affanno per quattro piani a piedi e la prima cosa che aveva notato erano le finestre che affacciavano all'esterno, gli alberi e la gente che camminava per strada. Per lei avere un affaccio esterno e non su un cortile interno voleva dire poter respirare e poter vedere la vita che scorre. Un giorno però fatti una casa tua, anche piccola ma tua, mi disse.




Ma il momento dell'anno più bello era la festa della Befana. Era l'unico momento in cui si aspettava qualcosa. E si aspettava di ricevere una befana di stoffa diversa ogni anno. Erano le sue bambole in qualche modo. Quelle che non aveva mai avuto da piccola, essendo cresciuta troppo in fretta, orfana di madre e con a carico fratellini e sorelline da accudire, lei comunque una creatura.



Per questo oggi sono andata in uno dei più bei negozi di dolciumi. Ho scelto una befana piccola fatta di tela grezza e morbida, con la faccia rugosa e sorridente, con i capelli spettinati e buffi. E ho parlato di mia nonna e della sua passione per le befane alla negoziante gentile mentre chiudeva il regalo con la rafia colorata commuovendosi un poco.





La Befana


di Giovanni Pascoli



Viene viene la Befana,

vien dai monti a notte fonda.

Come è stanca! la circonda

neve, gelo e tramontana.

Viene viene la Befana.



Ha le mani al petto in croce,

e la neve è il suo mantello

ed il gelo il suo pannello

ed è il vento la sua voce.

Ha le mani al petto in croce.



E s'accosta piano piano

alla villa, al casolare,

a guardare, ad ascoltare

or più presso or più lontano.

Piano piano, piano piano.



Che c'è dentro questa villa?

uno stropiccìo leggero.

Tutto è cheto, tutto è nero.

Un lumino passa e brilla.

Che c'è dentro questa villa?



Guarda e guarda... tre lettini

con tre bimbi a nanna, buoni.

Guarda e guarda... ai capitoni

c'è tre calze lunghe e fini.

Oh! tre calze e tre lettini...



Il lumino brilla e scende,

e ne scricchiolan le scale:

il lumino brilla e sale,

e ne palpitan le tende.

Chi mai sale? chi mai scende?






Co' suoi doni mamma è scesa,

sale con il suo sorriso.

Il lumino le arde in viso

come lampada di chiesa.

Co' suoi doni mamma è scesa.



La Befana alla finestra

sente e vede, e s'allontana.

Passa con la tramontana,

passa per la via maestra,

trema ogni uscio, ogni finestra.



E che c'è nel casolare?

un sospiro lungo e fioco.

Qualche lucciola di fuoco

brilla ancor nel focolare.

Ma che c'è nel casolare?



Guarda e guarda... tre strapunti

con tre bimbi a nanna, buoni.

Tra le ceneri e i carboni

c'è tre zoccoli consunti.

Oh! tre scarpe e tre strapunti...






E la mamma veglia e fila

sospirando e singhiozzando,

e rimira a quando a quando

oh! quei tre zoccoli in fila...

Veglia e piange, piange e fila.



La Befana vede e sente;

fugge al monte, ch'è l'aurora.

Quella mamma piange ancora

su quei bimbi senza niente.

La Befana vede e sente.



La Befana sta sul monte.

Ciò che vede è ciò che vide:

c'è chi piange, c'è chi ride:

essa ha nuvoli alla fronte,

mentre sta sul bianco monte.


 


martedì 4 gennaio 2011

Lady sings the blues

Lady sings the blues






Scalpitano

Scalpitano. Zoccoli di cavalli che scavano nella terra. Alzano polvere. Il suono è pieno, d'ossa avvolte da carne tesa. Vogliono correre. C'è un momento in cui si sa che sta per accadere. Come quando si gira la chiave per accendere il motore. C'è un brivido che nessuno percepisce, se non dopo tanto tempo passato ad andare a piedi. Poi si riprende la macchina, si arroventano i ferri di cavallo, c'è un rumore che è il suono della decisione. Una corsa o un viaggio. Poche frasi o un racconto. Non importa. Può essere solo una passeggiata. Ma è andare che importa, è far scorrere e correre e a volte fare imbizzarrire le parole. Si può cadere, certo. Se non ci fosse questa eventualità non ci sarebbe bisogno di scrivere. Non più per il bisogno di mettere i ricordi nella cassetta di sicurezza di una frase. Non più per se stessi. E' vedere intorno, è la curiosità, è il bisogno di capire come diavolo combinare l'interno e l'esterno e comprendere che non c'è una linea di confine netta. E' una notte in cui si va in salita, la strada disseminata di scritte che non hanno nulla di casuale ma che sono lì con una casualità disarmante. Sgrammaticate e urlanti. E passi sopra che non hanno bisogno di parole. Passi che vogliono arrivare a quella macchina accesa ore prima e fatta andare e parcheggiata proprio lì, proprio sotto un albero dal quale un uccellino notturno spicca il volo, le stelle chiare, e proprio lì sentire addosso mani che già ti conoscono, da un tempo antico, ridefiniscono il tempo. Che il tempo è tutto. E' il tempo che non si riesce a fermare, è il tempo che disegna, è nel tempo che esistiamo ed è per sincronie che accade l'irraccontabile. Narrare una notte senza parole ma con occhi e abbracci e vetri sfocati da cui la luce passa ammorbidendosi e sfumandosi come una nuvola che si disfa, mentre fa freddo, si gela e nel freddo sentire un calore di sfida, è impossibile.

Narrare il trovarsi e il perdersi sapendo che ci si ritroverà.

Scalpitano. Parole che scavano nella terra e nell'aria e nel tempo. Fremono. Chiavi che girano e accendono il motore di ciò che siamo. Uomini e donne che andando via cercano momenti impossibili da raccontare e li sistemano in una trama per disfarsene e allo stesso tempo per ricordare ognuno la propria apparente verità.

lunedì 3 gennaio 2011

Un due tre

E via.

Si ricomincia.

Uno, due e tre.

Non uno, non due, tre propositi.

Tre desideri.

Tre scelte.

Non sono facili.

Ma servono tutti e tre.

Mi servono.

Ne ho bisogno.

Li voglio.

E li realizzerò.

Non è più il tempo dei tentennamenti.

E' passato il tempo dell'indecisione.

Ampiamente descritto e macerato.

Ora è tempo di farne un condimento succulento

per l'arrosto, non più per il fumo.

Buon anno a tutti.

E che ognuno abbia pane per i propri denti.

E denti aguzzi.