domenica 30 novembre 2008

Angeli mascherati

Erano giorni in cui avevo il futuro davanti a me.


Camminavo per Parigi accanto al mio Maestro di allora, con la testa innamorata di tutta la bellezza che per la prima volta vedevo e sentivo.


Ero spaventata. Ché la bellezza e il futuro hanno un gusto risoluto che solo i forti conoscono senza provarne spavento.


Ci fermammo un giorno solo a Parigi. E in un pomeriggio, verso il crepuscolo, inebriata dalle viuzze del quartiere latino, entrando e uscendo dai bistrot con le immagini dei poeti maledetti che mi fissavano dai muri ingabbiati in quadri e in fotografie, i loro occhi mi seguirono e si insinuarono


con una forza che ancora adesso non comprendo. E in un pomeriggio, col freddo tagliente di un inverno di sole che impallidiva lasciando il posto ai lampioni che annunciavano la notte, varcai la soglia.


Entrai che fuori c'era la luce e, solo ora realizzo, da lì non sono più uscita.


Il mio Maestro, con un cappotto verde bottiglia e con il viso vispo e allegro, un'allegria che scaturiva da un'intelligenza curiosa, salutò con un abbraccio un omino piccolo, i capelli arruffati e la giacca color rubino, polverosa di anni. Parlarono poco ma si dissero molto con gli occhi. E mi trovai, dritti nei miei, due fasci azzurri di luce, colmi di tenerezza e di severità. Una severità che metteva alla prova. Ressi lo sguardo, uno sguardo che a un tempo sembrava liquefarmi e ricrearmi.


La ricompensa fu una stretta di mano. E, nel mentre, una presentazione. Sono molto lieto di conoscerla, sono George Whitman, disse. Al suono di quelle parole, mi sentii mancare. Il mio Maestro di allora se ne accorse e mi tenne per il braccio, affinché non cadessi.


Poi, lentamente, salii con lui scale ripide di legno e, con le gambe tremanti, gli occhi percorrevano tutto attorno. Non vedevo altro che libri, occupavano tutto lo spazio. Inventavano lo spazio, infilandosi ovunque, come fossero creature viventi. Lise e ricche di storie.


In cima alle scale si aprivano stanzette. Mi sedetti su una panca, gli occhi sgranati.


L'omino dallo sguardo azzurro era lì di fronte e mi osservava, aveva una tazza fumante tra le mani.


Me la porse, insieme a un invito: Non aver paura. Ma ora alzati da lì, sei seduta sopra un letto.


Mi alzai di scatto. E mi accorsi che quella panca coperta di libri era un giaciglio. E non era il solo.


Dalla finestrella la sagoma di Notre Dame era blu scura, striata di azzurro. Sembrava un quadro. Dentro, quel colore era negli occhi dell'omino. Notavo la sua svelta lentezza.


Sedemmo tutti e tre su un'altra panca, dopo aver spostato i libri che la ricoprivano. Erano libri di poeti. E bevemmo il té in silenzio, il té più buono che ancora ricordi. Il calore mi scendeva giù nel corpo ancora tremante ed ebbi il coraggio di dire, con gli occhi bassi che si alzavano contro la mia volontà per incrociare ancora quell'azzurro vivissimo: Ma lei ha a che fare con... Senza lasciarmi il tempo di continuare, mi rispose con un sorriso a metà tra l'ironia e la malinconia: sì, sono il nipote di Walt Whitman. Il suo spirito è con me. Poi il suo sorriso si allargò, forse per accogliere la mia commozione che non riuscivo più a camuffare. Parlammo con confidenza e mi spiegò che in quel luogo accoglieva scrittori e poeti di passaggio a Parigi, in cambio di un aiuto nel tenere in ordine la libreria. Chi si fermava lì doveva anche leggere, perlomeno un libro al giorno, per tenere in vita i libri, oltre che loro stessi.


Non ricordo quanto tempo passai lì dentro. Qualunque fosse il tempo misurato in secondi, minuti od ore, è ancora presente. George Whitman, prima di lasciarci andare via, mi porse un libro. Conteneva storie scritte proprio in quel luogo da chi lo aveva abitato. E il titolo riassumeva il suo pensiero: Angels in disguise. George Whitman ha sempre accolto tutti, convinto che non bisogna essere inospitali con gli stranieri perché possono essere angeli mascherati.


Da quel pomeriggio la vita mi rotolò da sola dalle mani e si fece veloce e io a inseguirla. Persi quasi tutto quello che allora andavo costruendo. E ancora adesso, quando mi sento persa, cerco di ricordare il fascio di luce azzurra che compone nell'aria le parole: Non aver paura.


Ma sento la mancanza di chi sa sostenermi per non farmi cadere.




sabato 29 novembre 2008

Un groove liberatorio

Il problema è tutto nella tua testa, mi disse

La risposta è semplice se la vedi logicamente

Vorrei aiutarti nella tua lotta per essere libero

Ci devono essere cinquanta modi per lasciare la tua amante

 

Lei disse non è mia abitudine intromettermi

E inoltre, spero che quel che intendo non vada perso o frainteso

Ma mi ripeterò, rischiando di sembrare cruda

Ci devono essere cinquanta modi per lasciare la tua amante

Cinquanta modi per lasciare la tua amante

 

 

Sgattaiola dal retro, Jack

Fai un nuovo piano, Stan

Non c'è bisogno di essere timido, Roy

Renditi libero

Salta sull'autobus, Gus

Non c'è da discutere tanto

Butta la chiave, Lee

E renditi libero

 

Sgattaiola dal retro, Jack

Fai un nuovo piano, Stan

Non c'è bisogno di essere timido, Roy

Ascoltami

Salta sull'autobus, Gus

Non c'è da discutere tanto

Butta la chiave, Lee

E renditi libero

 

Lei disse mi addolora vederti in questo stato

Vorrei poter fare qualcosa per vederti sorridere di nuovo

Io dissi lo apprezzo e puoi per favore spiegarmi i cinquanta modi

 

Lei disse perché non ci dormiamo su stanotte

E credo che al mattino inizierai a vedere la luce

E poi mi baciò e io capii che forse aveva ragione

Ci devono essere cinquanta modi per lasciare la tua amante

Cinquanta modi per lasciare la tua amante

 

Sgattaiola dal retro, Jack

Fai un nuovo piano, Stan

Non c'è bisogno di essere timido, Roy

Renditi libero

Salta sull'autobus, Gus

Non c'è da discutere tanto

Butta la chiave, Lee

E renditi libero

 

Sgattaiola dal retro, Jack

Fai un nuovo piano, Stan

Non c'è bisogno di essere timido, Roy

Ascoltami

Salta sull'autobus, Gus

Non c'è da discutere tanto

Butta la chiave, Lee

E renditi libero



Traduzione di 50 ways to leave your lover di Paul Simon










E questa è l'interpretazione in jazz:














Una sorta di paradiso

matisseNon c'è niente di più difficile per un pittore veramente creativo del dipingere una rosa, perché prima di tutto deve dimenticare tutte le altre rose che sono state dipinte.









H. Matisse








sabato 22 novembre 2008

Le musiche di Matisse e Picasso

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Ho trovato per un caso fortuito questo cd. Mi è venuto incontro, nel suo rosa squillante e con i capolavori L'acrobata di Picasso e Il Nudo Blu di Matisse sulla copertina. C'è una bellezza fuori, c'è una bellezza meravigliata dentro, ascoltando i due cd che contiene e c'è una bellezza nel testo critico che si scopre all'interno. E' in francese e in inglese. L'ho tradotto, per comprenderlo meglio e per condividerlo. Ce ne fossero dischi così. Se vi viene incontro un giorno, mentre pensate ad altro, aprite le orecchie come se fossero braccia e stringete i suoni dentro. Chiudete gli occhi e pensate ai segni lasciati da questi due grandi pittori. I colori vi esploderanno dentro con la delicatezza inesorabile di una rosa che sboccia. E i pensieri si faranno semplici e sonori, si solleveranno sulle punte per elevarsi in equilibrio su un mondo tanto scosso e incomprensibile nella sua ordinarietà da richiedere un equilibrio da acrobati e un'eleganza blu.





Ma, prima di leggere, vogliate deliziarvi:





 









 



 





"Il mio sogno musicale è ascoltare la musica delle chitarre di Picasso". Questo era il desiderio di Cocteau, alto sacerdote dell'unione di tutte le arti, scrittore, creatore di schizzi, regista e forza trainante del Gruppo dei Sei. Senza la presunzione di avverare il suo sogno, questo CD offre l'opportunità di ascoltare la musica che ha influenzato profondamente la sensibilità di Matisse e di Picasso e che è stata una fonte perenne della loro ispirazione. Alcune delle registrazioni sono state fatte da musicisti che i due artisti conoscevano e apprezzavano (tra gli altri, Cortot, Gershwin, Menuhin).

 

Matisse: la musica dei colori

 

Matisse fu un entusiasta appassionato di musica per tutta la sua vita, tanto da fare della musica uno dei temi essenziali delle sue opere. Era un grande amante del violino, che imparò a suonare a tarda età, quando temeva di diventare cieco e di perdere il contatto diretto con l'arte. Ammirava particolarmente Ysaye, del quale scrisse: "Questo alto, corpulento uomo usava il suo archetto per accarezzare le corde del suo violino tanto da sembrare un maestro di danza, con gesti così sinuosi e imperturbabili - gli inizi e le fini delle sue frasi quasi impercettibili, i loro centri sapientemente amplificati - che si poteva sentire proprio lo spirito della danza". Il violino appare molte volte nei suoi dipinti, come ne Le Violiniste alla finestra (1917), in cui è ravvisabile un autoritratto, e Interieur a la boite de violon (1919). Tra i compositori, Bach è un costante punto di riferimento: "Mi piacerebbe vedere in un dipinto la chiarezza e la purezza di Bach". Ma Matisse era anche estremamente interessato ai contemporanei: Prokofiev, che incontrò nel 1921 (un incontro che valse un ritratto); Shostakovich, del quale una sinfonia gli permise di "trovare" alcune finestre di vetro. Godette della duratura amicizia con Cortot, del quale fece un disegno a matita e carboncino nel 1926, con Gershwin, che incontrò allo svelare de La Danza nel 1933, e soprattutto con Poulenc. I due artisti avevano in comune lo stesso standard elevato di sobrietà ed economia. Poulenc asserì che cercava ispirazione nei disegni di Matisse per "andare dalla complessità alla semplicità della linea". La sua Sonata per due pianoforti del 1948 è dedicata al pittore. Matisse rifiutò ogni semplicistica assimilazione tra le due arti: "Dipingere richiede organizzazione, attraverso mezzi molto consci, come nelle altre arti. Organizzazione di forze - i colori sono forze - come nella musica organizzazione di timbri. Ma per questo non confondiamo pittura e musica. Le loro azioni non sono altro che parallele. Non sarebbe possibile trasformare Beethoven in pittura". Anche se linguaggio pittorico e musicale non si uniscono mai, possiedono mezzi paragonabili di funzionamento, "paralleli" che ammettono l'analogia tra armonia e colore, ritmo e forma. Matisse paragona la disposizione delle note della scala e dei colori e concepisce le relazioni dei colori in un quadro come se fossero polifonie. "Sette note, con leggere modifiche, sono abbastanza per scrivere qualsiasi partitura musicale. Perché non dovrebbe essere lo stesso per le arti plastiche?". Egli mischia i vocabolari dei suoni e delle immagini persino nella formulazione del suo credo estetico: "Ho provato a sostituire il vibrato con un'armonia che è più espressiva, più diretta, un'armonia la cui semplicità e sincerità mi avrebbe dato superfici più tranquille". Queste "superfici più tranquille" sono chiaramente le tinte piatte e le composizioni di collage nelle quali Matisse cerca una forma di sobrietà e delle quali fa uso, per esempio, nei dipinti La danza e la musica (1909-10), La Danza (1931) e La Musica (1939). L'articolazione dei colori tra di loro è quindi concepita in termini di ritmo. "Non basta stendere i colori, per bellissimi che siano, uno dopo l'altro. Altrimenti si avrebbe una cacofonia. Il Jazz rappresenta un ritmo e un significato." Il titolo Jazz (1947) è stato scelto da Matisse dopo aver determinato la composizione dei colori le cui armonie - violente ma sensibili - gli evocavano le sonorità del jazz. E' stato Gershwin a fargli conoscere le prime registrazioni di Dizzie Gillespie, Louis Armstrong e Billie Holiday.

 

Picasso: di chitarre e d'uomini

 

Per Picasso, la musica era prima di tutto una questione di amicizia. Le sue relazioni con i compositori del suo tempo erano strette. Poulenc gli aveva dedicato la cantata Figure umane e iniziò il suo ciclo di canzoni Il lavoro del pittore dai poemi di Elouard con Pablo Picasso. Picasso, da parte sua, mise le prime quattro lettere del pianista Alfred Cortot in uno dei suoi dipinti e fece un ritratto di Satie. Oltre a questo omaggio, una vera collaborazione intellettuale si stabilì tra Satie e Picasso dal 1917. Per certi aspetti la musica di Satie ha punti di contatto con l'affermazione del Cubismo. Come il Gruppo dei Sei, la cui guida era Satie, Picasso lavorò verso la semplificazione delle forme e trovò ispirazione nell'arte popolare. L'abolizione della prospettiva, la simultaneità dei punti di vista e la frammentazione delle forme che il Cubismo raggiunse sono echeggiate nella musica e nell'utilizzo di sonorità ruvide, del collage di suoni disparati e della giustapposizione di brevi violente sequenze in contrasto con i passaggi più calmi. Questa affinità estetica spiega in parte la presenza frequente di oggetti musicali nel lavoro di Picasso. Gli strumenti musicali sono molto utili per la distorsione e la stilizzazione. Rappresentano un insieme di volumi, di linee di forza, ed esprimono l'aspetto profondamente ritmico dell'estetica cubista, in cui le vibrazioni e le risonanze sono latenti. La chitarra è lo strumento preferito di Picasso: appare in quasi quaranta dipinti! Senza dubbio perché le sue curve ne fanno un prolungamento del corpo umano, fino a dargli un carattere erotico.

 

I balletti: verso l'opera d'arte totale?

 

Oltre al diverso approccio alla musica e al suo ruolo in relazione alla pittura, Matisse e Picasso avevano in comune lo sforzo di creare l'opera d'arte totale, una vera utopia estetica nata alla fine del diciannovesimo secolo. Una testimonianza eloquente può essere trovata nelle loro rispettive collaborazioni con Diaghilev e Massine per creare balletti nei quali fossero fuse tutte le arti. Matisse, affascinato dalla danza, collaborò al suo primo balletto, Il canto dell'usignolo, con le musiche di Strawinsky, nel 1919-20. Fu per questo progetto, sfortunatamente perso, che perfezionò la sua tecnica di usare fogli colorati ritagliati. Nel 1937 lavorò di nuovo con Massine per L'Etrange Farandole, ballato alla prima sinfonia di Shostakovich e ripreso con successo al Theatre de Chaillot nel 1939 con il titolo Rouge et noir. Picasso fece molte più scenografie per i balletti. Parade, rappresentato al Theatre du Chatelet il 17 maggio 1917, lo vide lavorare sia con Diaghilev sia con Satie sulla sceneggiatura di Cocteau. Un'altra commissione di Diaghilev, Il cappello a tricorno, fu messo in scena e acclamato trionfalmente all'Alhambra Theatre, a Londra nel 1919. La coreografia era di Massine, la musica di Manuel de Falla. Il compositore trovò il sipario di Picasso così bello da aggiungere una fanfara di apertura per dare al pubblico più tempo per ammirarlo. Poi venne Pulcinella, con la musica di Stravinsky e la coreografia di Massine, la prima fu all'Opera di Parigi il 15 maggio del 1920. Bisogna anche menzionare Mercure (1924), che unì Satie, Picasso e Massine, e Le train bleu (1924), che ostentò i talenti di Darius Milhaud per la musica, Bronislava Nijinska per la coreografia, Henri Laurens per le decorazioni e Coco Chanel per i costumi. Picasso fece i sipari di scena. Infine, ci fu un balletto di flamenco nel 1924, basato su un'idea di Duaghilev, un lavoro del quale si è persa ogni traccia. La musica permette di tracciare un parallelo affascinante tra i due pittori. Attraverso il loro specifico trattamento sullo stesso tema si può discernere un costante dialogo estetico. La Sérénade (1942) di Picasso richiama La Musique (1939) di Matisse e l'ultima La Lezione di piano, una composizione astratta che consiste di bande di diversi colori, rivela la sua visione - e la sua critica - del Cubismo. Oltre a questo, vi è il loro comune desiderio di unire la tradizione e la modernità, e di andare dritti all'essenziale come eterna esigenza.


 





 



Mia traduzione del testo originale di Frédérique Ait-Touati, che accompagna "Les musiques de Matisse-Picasso", etichetta Auvidis

venerdì 21 novembre 2008

Quanto è profondo l'oceano (quanto è alto il cielo)

Quanto ti amo?



Niente bugie



Quanto è profondo l'oceano?



Quanto è alto il cielo?



 



Quante volte al giorno penso a te?



Quante rose sono cosparse di rugiada?



 



Quanto lontano viaggerei



per essere dove sei



Quanto è lontano il viaggio



da qui a una stella?



 



E se mai ti perdessi



Quanto piangerei?



Quanto è profondo l'oceano?



Quanto è alto il cielo?



 



Quanto ti amo?



Niente bugie



Quanto è profondo l'oceano?



Quanto è alto il cielo?



 



Quante volte al giorno penso a te?



Quante rose sono cosparse di rugiada?



 



Quanto lontano viaggerei



per essere dove sei



Quanto è lontano il viaggio



da qui a una stella?



 



E se mai ti perdessi



Quanto piangerei?



Quanto è profondo l'oceano?



Quanto è alto il cielo?









Traduzione di How deep is the ocean (how high is the sky) di Irving Berlin.











mercoledì 19 novembre 2008

sabato 15 novembre 2008

Fuochi infatuati

coltrane

A volte succedono cose che non ti aspetti. Succedono così, senza avvertire, senza chiedere, senza rumore. Senti una musica e senti che devi seguirla. Così. Perché ti piace non lo sai, ma sai che il tuo orecchio e i tuoi occhi la vedono. Non sai dove vuole portarti e non sai cosa vuole da te. Ha solo la necessità di farsi sentire e dirti che esiste. Che è venuta fuori e deve andare e fermarsi per poi andare ancora dove non si sa. Un pifferaio magico, un incantatore di serpenti, un accendino che prende colore e una sigaretta che vola via, un sorriso che si riempie del mondo, panni stesi che si staccano dalle mollette e si mettono a ballare, la gente intorno che non vedi e le voci che non senti. Senti solo una musica non suonata, la senti nelle immagini e nei suoni di una voce, la senti nella testa, nelle mani, nelle parole, nelle ciglia lente che assaporano ogni nota. Stai bene. E non sai perché. Perché? Perché non importa. Hai addosso un grazie che fa male e brucia forte negli occhi. Una parola, una parola detta si perderebbe esplodendo. Hai freddo, sonno, tremi e senti un macigno sullo stomaco che ti toglie la voce. Ma stai bene. E continui a seguire la musica addosso ai passi che vagano e girano, voltano, ritornano e se ne vanno, rigirano e tornano e ogni posto già visto è diverso. Una piazza diventa una giostra e un circo, un fuoco per terra si fa sole, si spegne tutto in un attimo. Un cortocircuito e una scarica elettrica che paralizza. E poi sparisci, non ci sei più. Ci sono due occhi che si abbassano. Continui a seguire la musica mentre diventi sempre più piccola fino a scomparire in un casco. Senti poi qualcosa che ti cade sulle guance senza freno. Allora acceleri e spegni tutto, ma non ci riesci.



Molti anni dopo ritrovi queste parole scritte per chi cantava le note di John Coltrane passeggiando con te e ti ricordi che eri meravigliata, in estasi. Era un ragazzo dagli occhi grandi e verde grigio. Una volta mi scrisse: prometti di non smettere mai di scrivere.



Di lui, insieme alla musica, è rimasta questa promessa tra le mie cose preferite.











lunedì 10 novembre 2008

La Tartaruga

Questo è stato il mio primo disco. Lo ascoltavo portandomi appresso un mangiadischi arancione che tenevo come fosse una borsetta. Ho sempre adorato le tartarughe. E questa voce, gentile, allegra e lieve come solo i poeti sanno esserlo, è una delle più dolci per me:



 




sabato 8 novembre 2008

Frutti

frutti

Il fruttivendolo di qui ha un negozietto dalle luci calde che illuminano la frutta e la verdura come gioielli raccolti in piccole ceste. Pomodori di rubini, insalata di smeraldo, banane d'ambra, uva di giada.


Nella mia città il fruttivendolo ha solo gli occhi preziosi, due turchesi. E' la prima persona che vedo la mattina. Mi affaccio dal balcone e sta là sotto. Magro magro e giovane, ha braccialetti d'oro ai polsi dalle mani sporche di terra. Le unghie, le unghie soprattutto hanno una linea nera netta, come se si portasse appresso, sulle dita, cinque orizzonti per mano. C'è gente la mattina, la via che sta sotto casa è piena di negozi di alimentari, accanto il panificio e accanto il caseificio rendono la strada, quel pezzo di strada, piena di donne che entrano ed escono cariche di buste bianche gonfie di verdura, pane, formaggi. Frettolose le donne, scure in viso, tirate. Quando si riconoscono, sorridono. Chiedono dei loro figli, perlopiù. I loro figli non ci sono, sono in altre città. Tra di loro ne parlano come di uomini partiti al fronte piuttosto che per città universitarie.


Qui a Roma il fruttivendolo è tra un negozio di abbigliamento e una pizzeria al taglio. Sta sempre dentro. Ordinato, calmo, cortese.


L'uomo dagli occhi turchesi, invece, è agitato. Urla invece di parlare. Ogni tanto si mette le mani tra i biondissimi capelli lunghi, prima di aggiustare le casse di frutta esposte fuori, che intralciano la strada. Le sue braccia, da magrissime, si tendono di muscoli nudi all'aria salmastra, di scirocco.


Il suono secco della lattuga che si spacca sotto l'acqua è verde.


Devo accendermi una sigaretta e sedermi a osservare fuori.


Lascio correre l'acqua sulle foglie prive di un centro, ora sono tutte sparse e spaurite.


Ho comprato stamattina il cespo d'insalata, al mercato di frutta e verdura, non sono andata dal fruttivendolo.


Il vociare forte e invadente mi ha messo allegria.


Non sapevo che banco scegliere, mi sembravano tutti uguali. Ma ognuno espone diversamente tutti quei frutti della natura, a caso. Un caso che rispetta il carattere di ognuno. Una donna giovane dai denti di vecchia era molto accurata. Tutto chiuso in piccole buste di plastica trasparente, confezioni monodose al passo con il dilagante starsene da soli di molti.


Dietro un altro banchetto, un vecchio giovanotto (o un giovanotto vecchio) sembrava ridere di chiunque tranne che di se stesso. Mi sono avvicinata a lui, attratta dal suo berretto poggiato storto sulla testa coi capelli bianchi rasati e occhi appuntiti con striature azzurre, come fossero topazi. Mi ricordavano il ragazzo della mia città. Quegli occhi, ben nascosti, vagavano veloci dal mio viso alle sue verdure. Signorì, questi so' buoni, mi ha detto con la voce da fumatore. Provi, provi e poi si ricorderà di me mentre mangia. Quanti ne metto? I pomodori erano belli, era vero. Piccoli e all'apparenza succosi, rossi rossi. Mezzo chilo, gli ho detto. Il giovanotto ha preso un foglio di giornale, lo ha riempito di grappoli di pomodori e me li ha messi dentro la busta con i giornali che mi penzolava dall'avambraccio piegato. Poi ho preso delle arance, erano grandi come teste di neonato. Le ho accarezzate e mi sono ricordata di quando da piccola tenevo in braccio un cuginetto nato col bitorzolo in testa. In quel periodo ero attratta dagli aquiloni. Una volta, molto più grande, ne ho fatto volare uno, costruito insieme all'unico uomo che abbia saputo amarmi. Eravamo accanto a un mare autunnale e solitario, che riempivamo con grida di meraviglia per un aquilone che riusciva a stare alto, che tirava il filo trasparente in cerca di libertà e con la coda dai fiocchi di nastri rossi e arancioni, come quei pomodori e quelle arance.


Lasciai andare l'aquilone, si perse nel cielo, lo guardai vibrarsi in una libertà senza peso e senza meta. Lasciai quell'uomo, che trasformò il suo dolore in forza. Io imparai la struggente lezione che la libertà senza un filo che la regge è sbando.


Metto l'insalata in una coppa insieme ai pomodori. Leggo i giornali nel mio tempo ancora indefinito. Guardo le arance e sogno gli aquiloni.

venerdì 7 novembre 2008

Ci si contorce



in sforzi quotidiani e sbatte nell'aria un'essenza che non s'espande attende senza sperare spera strappando al sonno una libertà piccola come un gesto nel tempo e nel modo, continua giorno per giorno a cercare abbassando le spalle chinando la testa ma solo da fuori si vede, ché dentro è un fiorire e imparare per gusto piacere amore e brilla lo sguardo non visto e si eleva scivola nella giusta direzione che non è giustizia è quel che è, suono di un colore nato per sbaglio e sorpreso a respirare senza sconquasso lieve lieve come se volesse sparire per non dare fastidio e intanto cambia le vite di chi l'ha tirato fuori in una distrazione passione di tenera ribellione impreparati a saperlo vedere e a posare su un foglio su un legno o una tela su ali di vento su voli autunnali su sogni all'indietro su foglie tremanti o tappeti volanti.



Ci si contorce



nasciamo nel tumulto di un cielo in subbuglio e ci inarchiamo di improvvisa bellezza che dura ben poco sfumando di timidezza torniamo a sentirci un colore non visto che colora la luce.








domenica 2 novembre 2008

Essere

Essere più forti della propria tristezza


Non abbandonare il dolore della mancanza


di una carezza


Ma immergersi dentro, sapendo riemergere


senza niente tra le mani, solo con un soffio


di bellezza.