Diceva di avere spade in casa per scacciare gli spiriti maligni. E mentre lo diceva gli occhi si facevano severi, prima di esplodere in una risata che gli faceva ballare tutto il corpo grande come un globo. Sembrava un lottatore di sumo ma aveva il viso dai lineamenti belli e una risata contagiosa in una mente sveltissima. Le poche volte che ci siamo visti sono state intense, come quando ci si incontra dopo tante vite. La mia vita allora era in bilico. Avevo tanti bivi che non vedevo. Cieca, lo sono ancora. Non vedere le possibilità è peggio che non averne. Due volte in cui vidi colui al quale ero legata da un filo resistente che passava attraverso altre vite e le teneva tutte assieme, in una collana splendida, due volte in cui accaddero cose misteriose e si risvegliarono fatti antichi, si schiusero porte pesanti di negazioni e di irrisolutezza, una luce passò lì in mezzo, uno spiraglio nel quale polvere e farfalle e una visione fecero capolino. Poi un rumore sordo richiuse tutto in una prigione in cui scontare una colpa senza venire a capo del giudizio inflitto e del giudice, piazzato sul mio cuore col diritto degli ingiusti.
Quando visitai la sua mostra, la prima e la più importante, fuggii dal posto dove lavoravo. Corsi d'istinto prima che finisse l'orario di lavoro, corsi e nel tragitto sentii una libertà piena, quella che prende quando senza pensare si riesce a fare la cosa giusta. Entrai nello spazio bianco con il parquet in legno e lui mi accolse come se mi stesse aspettando, era la prima volta che ci vedevamo. Perlomeno la prima volta sottoforma dei corpi di cui eravamo vestiti. Mi illustrò il suo lavoro, che era un viaggio. Dipinte su tavolette minute di legno, le scene di un uomo che per conoscere la verità e la speranza entra dentro se stesso affrontando tutte le avventure più difficili e a volte ilari.
Poi, in un'ala quasi a parte della grande stanza, ecco che venni a contatto con i suoi spiriti, dipinti anch'essi su legno e con tracce di bianco tanto veloci da sembrare scrittura. Scegli, mi disse.
Siediti, osserva e prendi il tuo tempo. Scegli il tuo spirito. Senza esitare, indicai il quadro. Non avevo dubbi e la sensazione era esaltante, perché ne ho sempre avuti. Lui rimase in silenzio e quando credeva che fossi pronta mi spiegò il significato del quadro che avevo indicato: raffigurava una persona che cammina lungo un sentiero in discesa, ed è in cerca. Sopra c'è una luna, alla quale vuole unirsi. E' senza testa, non la riuscirà a raggiungere, il che è impossibile se non con un balzo di follia o di illusione. Era lo spirito ispiratore dei poeti. Scoppiai a piangere.
La seconda volta in cui lo vidi, camminammo per tutta la città. A passo svelto conversammo e ridemmo. Mi raccontò di Roma, di quanto non riuscisse a visitarne il centro perché aveva bisogno di partire dalla periferia per poi conquistarne il cuore, lentamente e in modo duraturo.
Il suo stare ai margini era una manovra di accerchiamento.
Nella città in cui eravamo allora, grigia e veloce solo di lucro, la velocità dei nostri passi era una sfida e una marcia verso la conoscenza. Così mi sembra nella distanza del ricordo. Ci sedemmo finalmente solo quando arrivammo in un ristorante giapponese. Per me era la prima volta che assaggiavo quel cibo che all'inizio spaventa. Mi descrisse ogni pietanza narrandola e regalandomi il gusto di un rito, quasi sciamanico. Decantò i miei occhi. Mi raccomandò di vestirmi di rosso quando fossi stata triste e di invocare il mio spirito.
Ci salutammo, promettendo di incontrarci quando fossi stata pronta a realizzare il mio destino.
Da allora non ci siamo più visti.